La colonna racconta…

La lunga storia dell’Heraion di Capo Colonna, sulla costa jonica calabra: uno dei luoghi simbolo della grecità d’Occidente
Colonna del Tempio di Hera Lacinia

Siamo a una decina di chilometri dall’odierna Crotone. Il vento scompiglia il bosco sacro ripiantato al posto dell’antico, e il fruscio dei lecci, dei carrubi, dei mirti, dei lentischi, degli olivastri accompagna il procedere mio e dell’amico Loris verso l’estremità del promontorio Lacinio. Lì, ritta come il faro ottocentesco che biancheggia poco distante, appare la colonna: l’unica rimasta del tempio dedicato a Hera, la dea protettrice della donna dal matrimonio al parto, alla nutrizione della prole, ma anche dei naviganti e di quanti, schiavi o prigionieri, cercavano rifugio presso il suo altare, signora inoltre della natura e degli animali, come attestato dalle mandrie sacre pascolanti nel suo bosco-giardino.

 

Siamo i soli visitatori? No. Loris mi indica oltre la rete di protezione una figura allampanata che s’aggira attorno alla colonna, la misura con lo sguardo, la palpa come cercando un contatto vitale con essa. Vedendoci arrivare, si arrampica sulla recinzione e la scavalca senza sforzo. È un giovane sui 30 anni, bruno, barbuto, viso scavato. Mentre ci passa accanto, butta lì una frase: «Pure la colonna ci hanno tolto a noi crotonesi!», quasi a giustificare la sua trasgressione al divieto d’accesso. E s’allontana lungo il sentiero che attraversa la zona archeologica.

 

Loris e io ci scambiamo un’occhiata, poi torniamo ad ammirare la colonna, il cui fusto dorato si staglia sullo sfondo turchino dello Jonio arricciato dal libeccio. Ne avrebbe, lei, da raccontare su quello che fu uno dei più celebri santuari della Magna Grecia, attivo dalla fine dell’VIII secolo a. C. fino al II d. C.!

 

Me l’immagino tra il V e il III secolo a. C., epoca del suo massimo splendore, ancora sede della lega italiota prima del trasferimento a Taranto di questa confederazione di tutti i greci del Meridione: un maestoso tempio in stile dorico con 6 colonne scanalate sui lati corti e 15 sui lunghi, costruito in locale calcarenite ricoperta d’intonaco bianco simulante il marmo (ma in marmo proveniente dalle isole della Grecia erano le sculture dei frontoni e le tegole del tetto). Dotato di una foresteria per gli ospiti di rango e di un edificio per i banchetti cultuali dei viaggiatori e dei sacerdoti, secondo l’uso della madrepatria, era affiancato da una via sacra lungo la quale si svolgevano le processioni in onore della dea, culminanti davanti al prospetto orientale del tempio, quello rivolto verso lo Jonio: feste annuali che attiravano frotte di pellegrini italioti da tutte le città magno-greche.

 

Più tardi questa prossimità a un mare un tempo considerato sicuro avrebbe facilitato le razzie dei pirati, lasciando il tempio spoglio degli ornamenti e dei ricchi ex voto accumulatisi nel suoi donari: tra questi, il celebre ritratto di Elena dipinto da Zeusi. Secoli dopo lo stesso mare avrebbe restituito doni diversi: carichi di navi naufragate, e quindi ancore, anfore, statue e altri manufatti in marmi preziosi, ora esposti nel locale bellissimo museo.

 

Ma torniamo indietro nel tempo. La colonna racconta i passaggi leggendari di Eracle, Menelao ed altri eroi greci, e quelli invece di personaggi storici come il filosofo Pitagora, esule da Samo nel 530 a. C. (grande la sua influenza nel governo della città), o come – nell’estate del 205 – Annibale in ritirata verso Cartagine per affrontarvi Scipione. Racconta di Milone, famosissimo atleta crotoniate, che vinse più volte le gare olimpiche di lotta e si rivelò anche valente stratega nella battaglia del 510 che segnò la vittoria di Crotone sulla rivale Sibari. Discepolo e genero di Pitagora, la sua fine è avvolta nella leggenda. Secondo Strabone, l’ormai vecchio Milone volle misurare ancora una volta la sua forza prodigiosa spezzando un ulivo secolare sacro ad Hera, ma rimasto incastrato nella fenditura praticata nel tronco, venne divorato dai lupi.

 

Siamo giunti all’età augustea, quando sul Lacinio venne fondata nel 194 a.C. la colonia romana di Croto (in seguito si sarebbe spostata sull’acropoli della Kroton greca): munito di nuove fortificazioni, l’abitato si accrebbe di terme e altri edifici pubblici, di botteghe, di splendide domus e di aree produttive. Sempre in auge era il culto alla dea, senonché – altra sciagura toccata all’Heraion – il censore Q. Fulvius Flaccus prelevò parte del magnifico tetto di tegole marmoree per ornare un tempio che intendeva costruire a Roma; fu poi costretto a restituirle, senza però che potessero essere rimontate per la complessità dell’ingegnoso sistema tecnico ideato dai costruttori greci.

 

E altro ancora del triste tempo della decadenza narra la colonna. Con l’immaginazione vedo il santuario sempre più silenzioso, sempre più disertato dalle sacre processioni, minacciato dall’erosione marina, ma ancora integro, almeno fino al XVI secolo. Poi devastato dai terremoti, con muri e colonne crollati, con la cella che ospitava la statua di culto aperta al sole e alle intemperie: una “desolata ruina”, secondo i viaggiatori dell’epoca, ormai soltanto cava da cui estrarre i materiali per erigere le chiese, i palazzi, il castello e il molo della Crotone medievale e vicereale.

 

Intanto, tra l’XI e il XIII secolo, sul promontorio Lacinio la sposa di Zeus e madre di dei ed eroi era stata rimpiazzata da un’altra Madre in una cappella eretta da monaci basiliani: è la Virgo lactans, Maria raffigurata in stile bizantineggiante mentre offre il seno al Bambino. Un ricordo di Hera nutrice di bambini (kourotrophos), che numerose statuine votive riportate alla luce rappresentano con le mani portate ai seni? Una volta l’anno, nella seconda decade di maggio, l’icona originale oggi custodita nelle cattedrale crotonese fa ritorno nella candida chiesetta accanto alla cinquecentesca Torre Nao (nome derivato dal greco Naòs, tempio). L’ accompagnano folle di fedeli in un suggestivo pellegrinaggio notturno che sembra rievocare le sacre processioni, anch’esse notturne, dell’Heraion.

 

Ma ritorniamo alle vicende del santuario. Risale al 1638 il crollo di una delle due colonne superstiti; quella che rimane – una sfida ai secoli e alle avversità degli uomini e della natura – subisce impercettibili oscillazioni sotto l’impeto dei venti. Non resiste ad essi, ma quasi li asseconda. Forse per questo è rimasta ancora in piedi. E gli ultimi restauri le hanno volutamente lasciato questa particolarità.

 

A volte di tutto un tempio basta anche una sola colonna a dire la civiltà di un popolo e ad esprimere, quasi dito puntato verso il cielo, l’anelito dell’uomo di tutti i tempi verso il trascendente.

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